giovedì 27 agosto 2009

Prigionieri politici in Iran 3: Bijan Khajehpour



3) Bijan Khajehpour

arrestato il 27 giugno 2009

Economista e analista politico stimato a livello internazionale.
Espatriato, ha compiuto i suoi studi in Germania, in Gran Bretagna e a Parigi. È tornato nel suo paese nel 1997, dopo che Mohammad Khatami era stato eletto presidente e nuove speranze per un Iran libero e democratico erano fiorite.
Attualmente Khajehpour è presidente del consiglio di amministrazione della Science and Arts Foundation in Iran, organizzazione non governativa che ha per scopo la crescita e lo sviluppo della gioventù iraniana per mezzo della tecnologia informatica. Presidente e fondatore di Atieh Group (consorzio di aziende di consulenza legale e finanziaria), così come di Atieh Dadeh Pardaz (consulenza informatica), Khajehpour ha anche contribuito con saggi e articoli, pubblicati in patria e all’estero, all’analisi delle strategie politiche e dello sviluppo economico in Iran. È membro del comitato editoriale della rivista Guftogu (trimestrale di cultura, politica e società).
Poche settimane prima del 12 giugno, ha pubblicato sul Guardian un articolo intitolato “Young Iran's search for a leader” (29 maggio 2009), dedicato all’importanza del voto giovanile nelle imminenti elezioni politiche iraniane.
È stato arrestato il 27 giugno scorso all’aeroporto di Tehran dove era appena atterrato di ritorno dall’Europa. Si era infatti recato prima in Austria, per parlare alla camera di commercio di Vienna, e poi in Gran Bretagna, per incontrare a Londra i rappresentanti della Iran British Business Chamber. In un caso e nell’altro lo scopo del suo breve viaggio era stato quello di incoraggiare gli investimenti stranieri in Iran, attività che Khajehpour svolge regolarmente da anni. Come “premio”, ha trovato al suo ritorno uno speciale “comitato di accoglienza”: persone non identificate (probabilmente agenti dei servizi segreti in borghese) lo hanno preso in consegna e non hanno fornito spiegazioni né sul luogo di detenzione, né sulle ragioni del provvedimento, che rimangono a tutt'oggi incomprensibili. È bene infatti ribadire che, nei giorni in cui la protesta popolare è esplosa, Khajehpour non si trovava nemmeno in Iran, ma all'estero.
Originario di Khoy, nella provincia dell’Azerbaijan iraniano, Bijan Khajehpour è noto tra gli amici e i colleghi come una persona mite e tollerante, sensibile ai problemi umanitari, ambientalista convinto al punto da essere diventato vegetariano, spesso coinvolto in attività solidali, scolastiche, educative. È ammalato di diabete e bisognoso di cure e di una dieta speciale. La moglie e le due giovani figlie vivono perciò, da settimane, nell’angoscia.
Manca, di lui, qualsiasi notizia.

Aggiornamento del 20 agosto 2009

La presenza di Bijan Khajehpour tra gli imputati alla sbarra nella seconda udienza del "processo-farsa" di Tehran, l'8 agosto scorso, è passata quasi inosservata. E' stata oscurata mediaticamente da quella della giovane studiosa francese Clotilde Reiss e da quella di Hossein Raman, impiegato dell'ambasciata britannica in Iran. Eppure Bijan Khajehpour era lì.
Ieri Paul Taylor, giornalista dell'agenzia Reuters, ha dedicato a Khajehpour un lungo articolo. Si guardano le foto del processo (scattate dell'agenzia semiufficiale Fars News) e si fa fatica a riconoscerlo: il volto smagrito, la barba lunga, lo sguardo perso. Privato degli occhiali — pare — sin dal giorno del suo arresto, Khajehpour vede poco e male. Sembra tuttavia in discrete condizioni di salute e riceve regolarmente le sue medicine per il diabete.
Si sa che è detenuto nel carcere di Evin, come molti altri prigionieri politici. Alla famiglia non è stata notificata alcuna accusa a suo carico, né le agenzie di stampa iraniana di tali accuse hanno dato notizia. Khajehpour è stato perciò privato della libertà dal 27 giugno senza che le ragioni siano state pubblicamente spiegate. Nel frattempo, mentre i suoi familiari erano all'estero, la sua casa è stata perquisita da cima a fondo.
E' inutile sottolineare che, come tutti gli altri imputati del "processo farsa", anche Khajehpour non ha potuto conferire con il suo avvocato. Ha incontrato per caso un avvocato fuori dell'aula processuale, giusto il tempo di dirgli che in aula ha respinto le accuse (ma in tv tutto questo non si è visto, le "confessioni" televisive sono state accuratamente selezionate, e l'atteggiamento processuale assunto da Khajehpour spiegherebbe anche il fatto che la sua presenza in aula è stata fatta passare sotto silenzio). Tali accuse — non è difficile immaginarlo — dovrebbero essere simili a quelle mosse agli altri imputati, specialmente a coloro che, come Khajehpour, per ragioni di lavoro viaggiano all'estero e hanno contatti nei paesi occidentali: spionaggio, complotto contro lo Stato, collaborazione con paesi stranieri nemici della Repubblica Islamica dell'Iran.
Di sicuro c'è che, all'estero, la cattura, la detenzione e il processo subiti da Kahjehpour non giovano all'immagine dell'Iran: un uomo per il quale tutti (diplomatici, economisti, analisti, ONG, personalità del mondo finanziario) nutrono stima e ammirazione; un uomo che si è speso e prodigato per incoraggiare gli investimenti stranieri nel suo Paese; un uomo che ha contatti con il mondo accademico internazionale, con compagnie petrolifere e aziende che hanno o potrebbero avere rapporti economici con l'Iran; un uomo di questa levatura viene per queste stesse ragioni considerato sospetto, arrestato e processato dal regime. La domanda con cui Paul Taylor conclude il suo articolo, non a caso, proviene da un funzionario di una compagnia petrolifera europea cliente di Bijan Khajehpour: "Perché l'Iran arresta una persona che lavora così duramente per il bene del suo Paese?".
Nel frattempo l'associazione pacifista Iranians for Peace, di cui Bijan Khajehpour è sostenitore, ha diffuso un accorato appello per la sua liberazione.



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